Una prospettiva neo-neo(..)-Taylorista – (ultima revisione: 29/08/2014)
Smart Working o Right Working?
Così come il “Cloud”, questo “Smart Working” che riscuote sempre più consensi non è un concetto nuovo, tantomeno rivoluzionario. Più verosimilmente è una foglia di fico, un tentativo di derubricazione a colposità passata attraverso un analogo puro e semplice re-branding, di un approccio al lavoro ed alle persone che lo svolgono che avrebbe dovuto già esserci e che, invece, colpevolmente non c’era…
Alla fine degli anni ’90, e con le connessioni dell’epoca, avevo già uploadato e downloadato giga e giga di file via FTP. Alcuni lustri dopo, passando attraverso l’Internet Boom e l’Internet Sboom, la stessa pratica, resa più usabile – leggasi opaca, ma anche automatizzata –, veloce e soprattutto più affidabile, è stata ribattezzata col nome di Cloud Computing. Ho come il dubbio che anche il termine “Smart Working“, con le sue profondissime radici in concetti organizzativi già abbondantemente disponibili, abbia avuto una genesi simile..
..Fors’anche più subdola..
Fra le definizioni più esaustive di Smart Working spicca quella contenuta in un paper (PDF) realizzato nel 2008 dal Chartered Institute of Personnel and Development assieme a Capgemini, multinazionale della consulenza aziendale. Secondo quest’ultima lo Smart Working sarebbe:
«..un approccio alla organizzazione del lavoro orientato a ricondurre maggiore efficienza e efficacia nel raggiungimento dei risultati lavorativi attraverso una combinazione di flessibilità, autonomia e collaborazione, parallelamente alla ottimizzazione degli strumenti e degli “ambienti” di lavoro per gli impiegati.»
Lo Smart Working, pertanto, non è da considerarsi quale sinonimo di Telelavoro, nonostante ne abbia ereditato le condizioni organizzative (flessibilità, autonomia) nonché le modalità operative – l’impiego di media di comunicazione e collaborazione tecnologici –, e sovente si manifesti con la remotizzazione dei lavoratori contingente a specifici requisiti e/od obiettivi programmatici. D’altro canto lo Smart Working contempla quale opzione tale remotizzazione, laddove la stessa sia stata identificata come funzionale al miglioramento (diretto od indiretto) della prestazione lavorativa, ma non la prevede a priori. In sintesi…
Anche prima che esistessero le tecnologie essenziali alla remotizzazione era possibile “lavorare smart“, e pure in una pizzeria il pizzaiolo, i camerieri, etc. possono essere più “agili” di quelli di un’altra…
In apparente – almeno.. – analogia con la diffusione del concetto di Cloud, quello di Smart Working pare intenzionalmente rappresentare l’opportunità di aderire ad un approccio o filosofia di lavoro per la quale tutti i presupposti erano già da tempo disponibili e tuttavia largamente poco o mal sfruttati. Una sorta di seconda chiamata per giustificare tutti quei ritardatari che – colpevolmente.. – non sono stati all’altezza di cogliere i suddetti presupposti quando l’accessibilità e l’usabilità di questi ultimi era nemmeno tanto inferiore rispetto ai livelli attuali od a quelli prevedibili per l’immediato futuro..
La colpevolezza di questa tardiva illuminazione è palese già per chiunque abbia anche solo una leggera infarinatura, anche non a livello accademico, di Teorie dell’Organizzazione. Basta ricordare i primi due nomi che compaiono in qualunque manualetto: Frederick Taylor ed Elton Mayo. Se il primo, oltre un secolo fa, ha offerto alle imprese una nuova prospettiva, scientifica, sull’Organizzazione del Lavoro, il secondo ha rilevato – e rivelato.. – l’esigenza, comunque opportunistica, di contemplare anche i fattori più umani della Produzione. Presi assieme, nonostante le profonde discrasie, col senno di poi di decenni e decenni di ulteriori progressi nelle Scienze dell’Organizzazione, questi due approcci si coniugano in un unico principio tanto semplice quanto apparentemente inconsueto per tante, troppe aziende:
Pur di migliorar(n)e la performance è lecito impiegare qualsiasi mezzo,
persino andare incontro ai lavoratori..
Scientificamente parlando tale principio si esplicherebbe nella pro-attiva ricerca, da parte delle aziende, dei fattori verosimilmente causali del miglioramento della singola prestazione individuale e/o gruppale e nella successiva implementazione di qualunque espediente – si tratti di concedere qualche giornata di Telelavoro da casa a settimana come di comprare monitor più grandi e/o di testare strumenti come Slack – riconosciuto come capace di influire su tali fattori. Niente di nuovo, insomma: né la Psicologia del Lavoro – la si chiami pure Psicologia Industriale o Psicologia delle Organizzazioni.. – né l’Ergonomia sono discipline nuove, laddove l’Information and Communications Technology compensa la propria inferiore età con uno sviluppo vistosamente più esuberante delle prime due..
..Sicché c’è stato sicuramente un momento, in questi ultimi anni d’esuberante sviluppo, in cui ciascuna fra le aziende alle quali oggi viene propinato lo Smart Working ha iniziato a praticare il suo contrario, il “Dumb Working“: pur sussistendo sia i mezzi (tecnologici) che i metodi (scientifici) e le motivazioni (scientifiche), esse non hanno colto le opportunità né dei primi né dei secondi. Per ciascuna azienda questo momento è stato diverso, ed è sopraggiunto allorché l’accessibilità e l’usabilità degli strumenti commercialmente disponibili sarebbero state, potenzialmente, sufficienti da permettere l’adozione di questi ultimi ma ciò, effettivamente, non è accaduto. Ad esempio: l’azienda che ancor oggi insista a impegnare cose, persone e denaro pur di riunire nella stessa stanza colleghi provenienti da diverse sedi è passata al Dumb Working da parecchi anni, sin dal momento in cui sarebbe dovuto essere evidente che si sarebbe potuto condurre almeno alcuni di questi meeting in teleconferenza – facendo, peraltro, un favore a tutti..
Se adottatabile lo Smart Working altro non è che Right Working:
il solo ed unico modo giusto di lavorare («One Best Way»?).
Peraltro chi riterrebbe l’essere “smart” soltanto un optional?
Un tanto premesso il conio di tale nuovo termine, lo “Smart Working” appunto, offre due fondamentali opportunità agli interessati:
- A chi intende venderlo di avere un “prodotto” già pacchettizzato (nonostante l’indubbia complessità), ossia facilmente identificabile e pertanto promuovibile senza troppi sforzi attraverso conferenze ed altri canali;
- A chi intende comprarlo di potere azzerare il calcolo del ritardo accumulato rispetto a chi – a questo punto per non ben precisate ragioni.. – da diversi lustri ha adottato le stesse politiche organizzative riproposte oggi.
Una situazione commercialmente assai suggestiva, nella quale potrebbe (fortunatamente) innescarsi un diffuso, proficuo circolo virtuoso sostenuto da una duplice spinta: da un lato i venditori a sensibilizzare la colpevolizzazione dei ritardatari articolando e migliorando sempre più l’offerta disponibile; dall’altro le aziende acquirenti ad ergere a totem di un proprio New Deal organizzativo, in precedenza indubbiamente inaccessibile (?), ciò che in realtà non potrebbe essere considerato altrimenti se non un uovo di Colombo.
Un circolo virtuoso che già appare tanto più roboante nella narrativa a suo supporto quanto grande è la la foglia di fico che questa costituisce. Un tantinello in più di onestà intellettuale forse sarebbe indicata!