Dalla carenza di terminologia alla carenza di significato
L’inadeguatezza semantica del "Lavoro Agile"
A 15 anni dall’Accordo Quadro Europeo sul Telelavoro (2002) non viene superato lo scoglio psicologico di considerare qualsiasi remotizzazione come un benefit sociale da concedere al lavoratore, forse solo su specifici requisiti (come nel Jobs Act), e non anche una possibile strategia aziendale o persino di interesse nazionale.
A palle ferme, ovvero con la Legge n. 81/2017 sullo Smart Working già da diverse settimane in Gazzetta Ufficiale, è finalmente possibile tirare le somme di mesi, se non anni, di esposizione alle cronache sulle discussioni (normative) su questo tema. Sinteticamente mi sento di dire che questa legge non è affatto male… per l’Italia, un Legislatore che è riuscito a tirare lungo sulla questione quantomeno per i quindici anni che sono passati, intanto, dall'”Accordo Quadro Europeo sul Telelavoro“, mentre ubiquamente ne evolvevano a ritmo esponenziale sia i contenuti tecnologici e metodologici che quelli strategici e legislativi (ad es. Gran Bretagna).
Tant’è che forse il vero motivo per cui prorompe una difformità fra la definizione classica di “Telelavoro” e quella nuova sul “Lavoro Agile“ non sta in qualche demadeutica pignoleria legulea — per la cui giustificabilità, magari, vien richiamata qualche remota previsione introdotta nel tempo da uno o più enti locali minori e quindi un indesiderato rischio di estensione retroattiva — bensì nella volontà d’eludere le responsabilità di tale lunga esitanza sfruttando un colpo di spugna lessicale, che oltretutto, incredibile dictu, offre pure l’occasione di potersi autoattribuire il plauso di aver fatto qualcosa di nuovo e non soltanto raffinato qualcosa che già c’era — perché in effetti qualcosa già c’era…
Non ho dubbi che la dichiarazione tutta d’un fiato per cui «Le disposizioni del presente capo, allo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, promuovono il Lavoro Agile quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa…» suoni meglio della «…modernizzazione dell’organizzazione del lavoro, con particolare riferimento all’utilizzo di strumenti tecnologici e all’introduzione di forme di flessibilità del lavoro, tra cui il Telelavoro…», di fatto sparpagliata fra più articoli, perdipiù in un D.M., quello del 2014, dedicato a dei venali voucher; certamente la prima, trattandosi di un’aerea dichiarazione di principio, risulta più emozionale e pertanto suggestiva…
Non si può non tirare un sospiro di sollievo nella definitiva equiparazione fra lavoratori in site ed off site in termini di tutele o nelle precisazioni sull’applicabilità del D.Lgs. n. 81/2008 — comunque precedentemente già chiarita dal Ministero del Lavoro — e, d’altro canto, non si può non apprezzare le apposte limitazioni all’eventuale invasività del Datore di Lavoro, a fronte, peraltro, di una minore indeformabilità dell’orario di lavoro — più che dell’effettivo luogo di esecuzione della prestazione che, dalla “previsione astratta” alla “fattispecie concreta“, resterà il domicilio del lavoratore od una sede satellite dell’impresa —, rimandata alla contrattazione individuale. Per il resto agli occhi di un tecnico non afferente a qualche disciplina giuridica o sociologica la suddetta dichiarazione è talmente di principio da avere la determinatezza di un “Faccio cose, vedo gente…“.
La parafrasi del testo del 2014 sarebbe all’incirca: “io, Stato, agevolerò finanziariamente te, Impresa, se vorrai investire nella modernizzazione organizzativa e tecnologica della tua attività, introducendo anche forme di flessibilità, fra le quali ad esempio il Telelavoro“. La modernizzazione, fattore internazionalmente riconosciuto di «competitività» (2017), può includere la flessibilità, che può a sua volta includere il Telelavoro, restando questi, tuttavia, dei concetti a sé stanti. Il testo del 2017, invece, nell’intitolarsi allo Smart Working, rende, volente o nolente, più vaghi i confini: la “smartness“, un’attitudine alla competitività concretizzantesi anche nella modernizzazione tecnologica (come nella Smart Home, nella Smart Factory, etc.), sembrerebbe fatta passare come direttamente correlata alla remotizzazione dei lavoratori. I quali, piuttosto, dovrebbero essere già “agili” per conto proprio, e poter operare in un contesto altrettanto “smart“, per ambire ad una qualche flessibilità, magari anche da remoto…
Sinteticamente: un’organizzazione potrebbe essere comunque smart, agile, sia mantenendo tutti i lavoratori in sede che adottando, ed a propria totale discrezione, una qualche “remote friendliness“…
In tal senso si potrebbe financo eccepire una sorta di recondita ingerenza dello Stato nella definizione di ciò che è “smart” e, dicotomicamente, di ciò che non lo sia, seppur con un’improbabile levata di scudi da parte dei destinatari, gli imprenditori, sotto il vessillo de: “l’impresa è mia e me la gestisco io, e sicuramente non mi farò dire cosa sia smart o no da un’istituzione il cui braccio operativo, la PA, sulla questione è vistosamente carente“. Una coda di paglia ce l’hanno anche (molti fra) questi ultimi, a giudicare dal progressivo detrimento in termini di competitività internazionale del Paese, che è poi, a sua volta, l’oggetto più realistico di questo ed altri interventi normativi degli ultimi anni…
Spero che questa istituzionalizzazione forzata del significato del termine “Smart Working“, che ovunque nel mondo ne ha uno differente, assai più generico, non offuschi la successiva riconoscibilità semantica di tutta la nomenclatura che quarant’anni di Storia del Telelavoro hanno prodotto, perché tale produzione, per quanto ovviamente discutibile — solito discorso: il tentativo di attribuzione di paternità è uno sport in voga da sempre, non solo in ambito politico; io stesso mi sono concesso il conio di “Criptotelelavoro” e “Telergofobia“! —, è stata e continua ad essere tutt’altro che casuale: emerge dalla gnoseologica e scientifica esigenza di ricondurre a una certa strutturabilità e determinatezza un fenomeno che, a causa della celerità e della penetrazione sociale con cui evolvono le tecnologie a suo supporto, è inevitabilmente assai differenziato/articolato e mutevole. Una carenza di convergenza e condivisione internazionali sin dalla terminologia da adottare, oltretutto perpetrata per legem, rende difficile il dialogo ed impossibile qualsiasi peer review, visto che il “Secondo me…” è ovviamente bandito da certi ambiti — e senza dubbio alieno alla prussianità regolatoria di cui in Italia ripetutamente ci lamentiamo da quando siamo nella UE…
Eppure una maggior proprietà di linguaggio (lessicale) sarebbe stata d’uopo pure nell’attuale frangente legislativo. Sperabilmente verrà perfezionata nella pletora di classici, successivi decreti attuativi, idonei ad intercettare al meglio le emergenti problematiche — perché no..? Anche di rango fiscale — di una fattispecie concreta alquanto nebulosa e che, pertanto, nell’eventualità che in futuro fossero registrabili concreti riscontri da parte di imprese e lavoratori, rischierebbe di costituire il preludio ad un’imbarazzante raffica di interpelli interpretativi, dai più essenziali a quelli più superflui — ché consulenti del lavoro, amministratori del personale et similia non hanno mai brillato in spontaneità nell’assumersi la responsabilità di una declinazione di leggi e regolamenti se non riduttivamente e conservativamente “letterale“…
Ecco alcuni esempi (sparsi) di uso funzionale, in base agli accreditati principii ispiratori della norma, di terminologia di settore appropriata:
- Criterio per l’emersione, o meno, dal Telelavoro Informale a quello Formale
- “«Le comunicazioni di cui all’articolo 9-bis del Decreto Legge 1 Ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla Legge 28 Novembre 1996, n. 608, e successive modificazioni» sono inderogabili esclusivamente qualora sussista, fra le parti, accordo per una pianificazione regolare, per un periodo determinato od indeterminato, dell’esecuzione della «prestazione […] in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno»; qualsiasi altra casistica, fra cui, ad esempio, il ricorso straordinario o saltuario a questa modalità d’esecuzione su richiesta di una od entrambe le parti, ricade interamente nelle previsioni normative e contrattuali riferibili all’istituto della trasferta del lavoratore…” Con una sola fava si sarebbero presi i due piccioni di riconoscere una declinazione informale, purché temporanea, del “modus operandi” e soprattutto di assimilarla a quella, tradizionale, di prestazione co-localizzata, cominciando così a restituire all’effettività della prestazione (Sì/No, Tanto/Poco, etc.) la giusta luce fra gli elementi del sinallagma. I benefici diretti di tale sorta di clausola di salvaguardia sarebbero molteplici, tuttavia fra questi spiccherebbero:
- L’opportunità di effettuare delle valutazioni sull’eligibilità al Telelavoro dell’individuo o della specifica funzione aziendale prima di imbastire le procedure di contrattualizzazione e relativa comunicazione obbligatoria; tali ricognizioni potrebbero essere anche predisposte a rotazione su tutto il personale minimizzandone l’impatto amministrativo;
- L’opzione di poter convertire un’assenza da lavoro giustificata per accudimento genitoriale, ad esempio, in una giornata di lavoro regolare, o quasi, evitando pure al beneficiario l’onere di produrre l’attestato di malattia; il “quasi” risiederebbe nella legittimazione a computare ore supplementari (co-localizzate) pregresse o future per colmare il delta rispetto al monte ore settimanale contrattuale;
- La facoltà bilaterale di poter ripiegare, alla (propria e discrezionale) bisogna, su un “Telelavoro Imprevisto“, uno “Situazionale” o persino uno “Emergenziale” svincolati dall’obbligo di qualsivoglia comunicazione presupposta, a fronte della mera documentabilità del momento dell’accordo (e.g. email, SMS, etc.).
- Telependolarismo (Domiciliare) versus Homeshoring
- Si parla sempre di “Work from Home” (“Telelavoro Domiciliare“) ma nel primo caso l’istanza, di norma per ottenere di «agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro» attraverso un contenimento del necessario pendolarismo (“commute“) verso e dal posto di lavoro, origina dal lavoratore; nel secondo, invece, la remotizzazione generalizzata delle maestranze è un’iniziativa verosimilmente rientrante nelle strategie sul medio-lungo periodo dell’impresa e questa ne può trarre benefici già a breve termine, a cominciare dalla riduzione dei costi di possesso e conduzione dei locali aziendali — o per il mantenimento di soluzioni WaaS (“Workplace as a Service“) e similari. Oltretutto i due casi non sono mutualmente esclusivi: la medesima azienda potrebbe mandare una intera divisione od un singolo reparto in homeshoring mentre centellina l’approvazione di istanze di «Smart Working» giungenti da altre divisioni o altri reparti, a propria completa e legittima discrezione. Una distinzione fra la dimensione individuale e quella collettiva, ad esempio ponendo una soglia percentuale alle comunicazioni obbligatorie di uno specifico periodo, ed in assoluto, rispetto al numero di matricole totali attive, consentirebbe altre puntualizzazioni:
- Superata la soglia relativa od assoluta potrebbe venir richiesto all’impresa di modificare all’uopo l’integrativo aziendale, stilare un elenco ufficiale dei lavoratori in homeshoring e restringere a queste sole due allegazioni la comunicazione obbligatoria, senza doverne inviare una per ciascun dipendente — procedura che, invece, resterebbe intatta per le istanze individuali di «Smart Working»; un’indubbia semplificazione amministrativa;
- Disponendo sia della comunicazione obbligatoria “collettiva” che di quelle “individuali” gli Organi di Controllo avrebbero una mappatura quasi-geografica dei lavoratori remotizzati, dalla quale ricavare per mera differenza quelli restanti in co-localizzazione per i propri ordinari fini, appunto, di controllo;
- Analogamente un discrimine di questo tipo consentirebbe di distinguere le forme e le modalità di eventuale agevolazione, magari facendole propendere sull’azienda o sull’individuo, o semplicemente riconoscendo che l’investimento richiesto per un homeshoring è atteso come probabilmente più significativo — ma al contempo più significante: in una situazione di «Smart Working» andrebbero facilitati i beneficiari, in una di homeshoring (prima) l’azienda ed in una “mista“, infine, ricordarsi che il datore di lavoro è pure sostituto d’imposta potrebbe offrire non pochi spunti per ulteriori semplificazioni amministrative; d’altro canto un atteggiamento premiante da parte dello Stato dovrebbe privilegiare, tra le imprese, quelle che vogliono approntare una strategia volta ad «incrementare la competitività», ad esempio con un Soft Shoring, rispetto a quelle unicamente benevolenti…
«Never mind, I give up!
Really now, I give up!»
In conclusione si conferma a mio avviso una falsata — non mi sbilancio ancora fra la dolosità (politica) e la colposità (tecnica) — prospettiva sulla questione, apparentemente determinata a piegare la “fattispecie concreta” ad una o più “previsioni astratte“, a loro volta circoscritte alla più basilare contrattualità (orario di lavoro, controlli, etc.) fra datori di lavoro e dipendenti: necessaria ma insufficiente, e — oserei dire — pertanto a rischio di controproduttività laddove non adeguatamente integrata, per un fenomeno che non è affatto nuovo ma tende a rinnovarsi di continuo. Questo quando non l’equiparazione fra le condizioni contrattuali, di tutela, etc. dei lavoratori bensì la equiparazione fra la prestazione co-localizzata e quella in remoto — secondo il principio per cui “sono secondari il ‘da chi’, il ‘come’ od il ‘dove’ la prestazione sia stata prestata; è primario che lo sia stata” — avrebbe in automatico trascinato con sé le altre…