Neologismi artigianali – (ultima revisione: 07/05/2014)
Telergofobia, questa conosciuta..
Lo scetticismo verso la telecollaborazione raggiunge talvolta i livelli di una vera e propria idiosincrasia “patologica” (eccessiva, immotivata), tanto da meritarsi una “connotazione clinica”
Pare che occuparmi di Telelavoro solletichi molto il mio “orgoglio etimologico“. Infatti, dopo aver dato i natali a “Criptotelelavoro“, voglio introdurre un altro etimo, questa volta seminuovo.
Esiste già, invero, un termine per il fenomeno in questione ed è “Telework Phobia” (la paura, l’avversione nei confronti del Telelavoro) oppure “Telework Skepticism” (la sola sfiducia o diffidenza), tuttavia, oltre all’anglofonia, secondo me appare un po’ troppo naïf e troppo poco tecnicistico..
Pertanto, per onorare pure la mia provenienza ginnasiale, vorrei proporre come alternativa omnicomprensiva un composto neoclassico che unisca la parola greca moderna per “Telelavoro” (“Τηλεργασία”) ad “Ergofobia” (il terrore del lavoro, del luogo di lavoro, dei colleghi..).
Il mio neologismo è “Telergofobia” ed è composto da “Τέλη” (“da lontano“), “Έργον” (“lavoro“) e “Φόβος” (“paura“), tutte parole dal Greco antico, ed è riferito, grazie soprattutto al suffisso “-fobia“, quello delle avversioni irrazionali verso qualcosa, ad una dimensione squisitamente clinica di questo fenomeno, a cui è associata una sensibile riduzione della autonomia dei soggetti che le provano nel relazionarsi col mondo circostante.
Nella fattispecie al profilo del “soggetto telergofobico” dovrebbe corrispondere:
- Un sentimento di immotivata insicurezza, fino al vero e proprio terrore nei confronti della situazione telecollaborativa, nel ruolo di superiore come di sottoposto, che provoca una drastica limitazione alle opportunità produttive ed organizzative – e pertanto anche economiche – esperibili..
Il confine fra un salubre (motivato) scetticismo e la fobia vera e propria è tracciato dal contesto, interno (all’individuo) e/oppure esterno (nell’organizzazione), che può essere (misurabilmente) più o meno predisposto alla relazione di lavoro remotizzata.
Ad esempio, per il timore di ricadere nell'”out of sight, out of mind” molti lavoratori associano al Telelavoro il rischio di una distorsione delle proprie prospettive di carriera. Pur trascendendo dalla palese grossolanità di questa percezione – posto che l’eventuale isolamento, comunque solo fisico, da colleghi e superiori è confinato ai momenti di completa remotizzazione (Homeworking) –, frutto di un’altrettanto grossolana conoscenza sulle innumerevoli declinazioni del Telelavoro, siffatto rischio è estinguibilissimo in una organizzazione che abbia formato il proprio organigramma in maniera da controbilanciare gli effetti (cognitivi e di interazione sociale) dell'”out of sight, out of mind“, che abbia stabilito policies di valutazione dei dipendenti basate esclusivamente sulla perfomance misurabile o che, più banalmente, abbia applicato pedissequamente la prima regola organizzativa del Telelavoro: stabilire dei rientri periodici in sede per i Telependolari – che non serve per accorgersi dell’esistenza dei propri dipendenti remotizzati ma proprio per fare, in generale, Team Building (e formazione, per sbrigare pratiche amministrative, etc..). Se il rifiuto della sussistenza di queste soluzioni portasse il soggetto al rifiuto di una tele-opportunità professionale fuori piazza e costringesse la sua famiglia ad una relocation – magari durante l’anno scolastico dei figli – si potrebbe parlare di Telergofobia, così come la situazione in cui lo stesso soggetto, per la medesima (volontaria!) ignoranza, rifiutando una remotizzazione part-time, costringesse il/la partner a restare a casa per la cura dei figli o l’assistenza dei genitori, od affrontasse spese superflue – a questo punto.. – per trasferte e servizi rinunciando ad altre, magari preferibilmente non procrastinabili (mediche, edilizie, etc.)..
Analogamente, i (troppi) manager terrorizzati dall’idea che dalla remotizzazione possa scaturire una perdita di controllo nei confronti dei sottoposti – evidentemente per un senso di inadeguatezza al proprio ruolo, o in quanto sospettano di non essere dei veri manager ma dei meri supervisor, magari non per proprie carenze tecniche o di leadership ma per una carente impostazione organizzativa in genere – di certo non farebbero il bene dell’azienda se da tale fobia conseguisse, in qualunque modo (esigenze personali dei lavoratori non corrisposte, fluttuazioni del carico di lavoro non affrontabili con la sola flessibilità oraria, etc.), un inquinamanto del clima organizzativo e, dunque, un probabile peggioramento della performance complessiva.
S’immagini, infine, quante potrebbero essere le ricadute economicamente negative di politiche aziendali refrattarie al Telelavoro: l’ampliamento dello staff, magari in un momento di crescita delle attività, mancato dalla procrastinazione dell’ampliamento/adattamento degli spazi disponibili, del trasferimento in una nuova sede o dell’apertura di una succursale; la riduzione delle opportunità di aperture a nuovi mercati o di delocalizzare attività di fino che richiederebbero la virtualizzazione dei flussi organizzativi; la riduzione del bacino di potenziali collaboratori e/o l’aumento dei costi per la loro acquisizione e fidelizzazione..
In tutti questi casi viene tradito il principio di una razionale analisi costi/benefici sull’opportunità o meno di una scelta telelavorativa. Quando questo tradimento avviene, consciamente od anche non consciamente, e magari ne consegue una qualunque perdita – o mancato guadagno.! – si può proprio parlare di Telergofobia..
Non vado oltre in questa dissertazione. Che in effetti è l’argomento preferito di questo blog, gestito da un tizio che invece dovrebbe ricadere, in tutti i sensi, nella “Telergofilia“..